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Fatemi sapere se vi piace questa storia, se avete da criticare, fatelo pure, perché le critiche sono costruttive. Mi piacerebbe ricevere un vostro giudizio. Grazie per aver letto questa storia. Non perdete il SESTO CAPITOLO, IL 18 DICEMBRE ORE 21:00"
CAPITOLO 5: PARTIRE,
NONNO, SEI TU?
Era
passato il mese di novembre e finalmente era arrivato dicembre, il mese
preferito di Claus, dei bambini e di tutti quei grandi che dentro di loro
restano ancora bambini.
Il
tempo era cambiato, diventando sempre più pungente giorno dopo giorno. Le forti
piogge stavano investendo un po’ tutto il mondo e la neve copriva tutta la
Lapponia.
Per
le strade potevi trovare tutte quelle vetrine colorate e tutte quelle lucci
appese per aria, che riuscivano a rendere il panorama ancora più mozzafiato.
Non
era solo questa cosa a rendere il natale la festa più bella dell’anno, ma anche
l’allegria che portava alle persone. La bellezza del natale è che, almeno per
qualche giorno, tutte le persone si sarebbero dimenticate dei loro problemi,
per sorridere insieme ai loro amici e parenti.
I
bambini, soprattutto di sera, quando l’atmosfera si faceva più suggestiva,
s’affacciavano alla finestra, per immaginare quel vecchietto, vestito di rosso,
che guidava una slitta.
La
cosa bella del natale è la neve, con la quale puoi fare i pupazzi di neve o
giocare a pallate con i tuoi amici.
Anche
Claus, come tutte le altre persone faceva il calendario dell’avvento, contando
i giorni che rimanevano a natale.
Ogni
mattina, prima di fare colazione, apriva una casella del calendario, per
mangiare un cioccolatino.
Dopo
essersi rilassato con una bella tazza calda di caffè e latte, si metteva subito
al lavoro. Aveva tanti aiutanti, ma non voleva scaricare le responsabilità
sugli altri. Faceva di tutto, si potrebbe dire che era un po’ il jolly della
situazione. Passava dalla lettura e catalogazione delle lettere,
all’incartaggio dei regali e alla scrittura dell’indirizzo sui pacchi; invece,
non aveva mai costruito i regali, perché in queste cose manuali, era davvero un
disastro.
Quando
aveva un attimo di pace, si metteva a sorseggiare la cioccolata calda davanti
al camino, ripensava alle parole che gli aveva detto Henry e più ci pensava e
più non capiva niente.
“Quale sarà la domanda che mi dovrà
fare?”. Si chiese nel bel mezzo della notte, ma non seppe
darsi nessuna risposta. Non era preoccupato, tutt’altro, era molto curioso.
Era
davvero felice: era dicembre e tra pochi giorni avrebbe rincontrato Henry e la
sua famiglia; il venticinque dicembre avrebbe fatto il giro del mondo.
La
legna nel camino scoppiettava e quando la fiamma si spostava, cambiava anche
l’illuminazione della stanza. Dallo stereo uscivano delle bellissime melodie
natalizie, che riuscivano a rendere quel momento ancora più magico.
Si
mise a ripensare ancora all’ultima conversazione che aveva avuto con Henry e
non sopportava l’idea di vederlo così strano e triste; se si fosse trovato
nella sua casa, l’avrebbe abbracciato e spinto a rivelargli quello che gli
passava per la testa. Gli voleva davvero tanto bene, come l’amore che provava
per i suoi figli.
A
volte, quella distanza lo faceva sentire a pezzi; se un giorno qualcuno gli avesse detto
che si sarebbe affezionato così tanto a un ragazzino, non gli avrebbe creduto.
Invece, lentamente, s’era affezionato in un modo veramente profondo a Henry.
In
questo momento, gli mancava come l’aria che respirava. Chiuse gli occhi e pochi
istanti dopo, gli apparve il volto sorridente di Henry che gli veniva incontro
correndo.
Claus,
sorrise a quel ricordo; ma quando riaprì gli occhi, quel pensiero svanì, come
il fumo dei camini, quando si disperde nell’aria.
Se
ne doveva fare una ragione della distanza che lo separava da Henry; sarebbe
dovuto essere facile per lui, perché era grande, invece, non lo era per niente.
Prese
il suo cellulare per rispondere a tutte le e-mail che aveva ricevuto. Si
rasserenò e per il resto della serata, smise di pensare a Henry.
Sulac
era davvero a pezzi, ma dire così era davvero poco. Passava le sue giornate in
modo davvero faticoso: lavoro, lavoro e solo il lavoro. La cosa peggiore, era
che il lavoro lo inseguiva fino a casa, senza lasciarlo libero un secondo.
A
volte, quando alla sera tornava a casa, era veramente stanco, tanto che aveva
fatto una scorta di cibi surgelati, quelli che bastavano dieci minuti per
cuocerli.
Durate
questi dieci minuti, si buttava sul divano e chiudeva gli occhi solo per due
minuti e senza addormentarsi. Alla fine, quei due minuti, le più volte,
diventavano mezz’ore e all’improvviso veniva svegliato da un odore di bruciato
che invadeva tutta la casa. Si svegliava all’improvviso e di soprassalto e
quando s’alzava per spegnere il fornello, nella padella non c’era rimasto più
niente, se non tutto il cibo attaccato e bruciato; allora, era sempre costretto
a prendere la pasta e cuocersela nel modo tradizionale
Molte
volte, nel fine settimana, si metteva a lavorare per attuare le sue riforme,
faceva tutti i conti per trovare nuove soluzioni e combattere così la crisi.
Quando non gli tornavano i conti, s’arrabbiava con se stesso e poi, prendeva il
foglio, l’appallottolava e lo lanciava alle sue spalle.
Durante
il fine settimana, si trascurava moltissimo: la sua barba cresceva a dismisura
e diventata ispida al tatto. La barba leggermente trascurata gli dava un
aspetto più maturo, perché riusciva a valorizzare i lineamenti del suo volto.
A
volte, era talmente stanco che non c’è la faceva nemmeno a fare la doccia; però,
quando la faceva e stava sotto quel getto caldo, si sentiva rinascere.
Una
cosa lo consolava, ancora pochi giorni e avrebbe lasciato la sua attività di
politico, per raggiungere suo fratello e aiutarlo con il natale. Aveva bisogno
di staccare la spina, non c’è la faceva più a lavorare con questo ritmo.
Nel
mese di novembre era riuscito ad abbassare le tasse, fino a portarle al
venticinque percento in meno rispetto all’inizio.
Non
era stato facile, non tutti accettavano queste sue decisioni estreme, per
questo, giorni prima di eseguire questa manovra, preparò dei grafici per far
capire a chi non credeva nelle sue idee, che l’economia s’era ripresa.
Quella
mattina si svegliò e dopo aver fatto colazione, si sentì rinato e forte come un
leone; era pronto per la sua penultima uscita dell’anno.
Era
stato un anno difficile, ma alla fine, alla fine di tutto, era riuscito nei
suoi intenti; questa cosa lo rendeva fiero. Aveva cambiato il mondo, dando un
po’ di felicità a tutte le persone; e anche se il mondo non era ancora
perfetto, sapeva che prima o poi lo sarebbe diventato.
Con
la macchina raggiunse il parlamento e attese che tutti i politici arrivassero.
In genere, arrivava sempre prima di tutti, gli piaceva molto essere puntuale e
lo rilassava molto, pensare e riflettere prima d’intraprendere un discorso
importante.
Dopo
una mezz’oretta, l’aula si riempì e tutti i politici presero il loro posto.
Quando
furono tutti seduti, lui si schiarì la voce prima d’iniziare a parlare.
«La
situazione economica è migliorata molto dopo le mie manovre. C’erano alcuni di
voi che non credevano nelle mie idee; le credevate troppo drastiche e che non
avrebbero portato a niente, se non a un peggioramento della situazione
economica.
Non
mi avete dato la fiducia, non le avete votate; ma grazie ad altri politici che
credevano nelle mie idee, sono riuscito a portarle avanti e ne sono molto
soddisfatto». Si fermò per qualche istante e guardò in faccia tutti politici.
Alcuni di loro gli sorrisero, per incentivarlo a continuare a parlare.
Dopo,
lo presero alla sprovvista e qualcuno s’alzò in piedi e incominciò ad
applaudirlo. Così, in un attimo, altri parlamentari, che credevano nel suo
operato, s’alzarono in piedi e lo applaudirono a loro volta.
«Grazie!,
allora io credo che dobbiamo abbassare ancora le tasse, per portarle a meno
venticinque per cento del valore iniziale». Disse infine Sulac.
Si
misero a votare e alla fine, grazie alla maggioranza, riuscì ad attuare questa
sua riforma; anche se c’era sempre il solito gruppo di politici che era
contrario a tutte le sue riforme.
Se
ne andò nel tardo pomeriggio, era fiero di se, fiero per quello che era
riuscito a fare.
Tra
qualche giorno avrebbe tenuto un discorso di fine anno, che aveva deciso
d’anticipare, perché voleva andare ad aiutare suo fratello.
Non
appena tornò a casa, dopo essersi fatto un sonnellino e una doccia, si mise
subito a scrivere il discorso.
Come
sempre, scriveva a mano, con carta e penna; a volte cancellava interi discorsi
e altre volte, quando non gli piaceva quello che aveva scritto, appallottolava
il foglio e lo gettava alle sue spalle.
Finalmente
arrivò il giorno in cui avrebbe fatto il suo discorso al mondo intero. Quella
mattina, si svegliò non appena la sua sveglia incominciò a suonare. Tirò una
botta sulla sveglia e la spense.
Fece
colazione, poi una doccia e alla fine, fu pronto per partire.
Prese
tutto il necessario per partire, si mise in macchina e partì. Non appena avviò
il motore, accese la radio e la sintonizzò sulla sua stazione radio preferita.
Stava
guidando e quando, all’improvviso sentì passare la sua canzone preferita, si
mise a cantarla a squarcia gola; da fuori l’avrebbero preso per pazzo, ma a
lui, non gli interessava.
In
quell’istante, si sentiva forte, si sentiva il leone della situazione; nessuno
avrebbe potuto scalfire la felicità che provava in quell’istante.
Era
fiero di se, ma non se ne vantava; aveva fatto solo quello che credeva giusto.
Quando
arrivò di fronte al parlamento, parcheggiò, prese tutte le sue cose e uscì
dalla macchina. S’avvio fino all’entrata del parlamento e s’accorse che all’esterno,
c’erano dei furgoni con grosse antenne satellitari, parcheggiati lì vicino.
Aprì la porta ed entrò dentro. Gli uscieri lo salutarono e lui fece
altrettanto.
Sparsi
per il parlamento c’erano davvero tante persone, tutte impegnate affinché
questo suo discorso andasse in onda in contemporanea anche in televisione.
C’erano diverse telecamere che puntavano tutte nel posto in cui avrebbe dovuto
parlare, l’avrebbero ripreso da più angolazioni. Per terra c’erano tanti i cavi
che passavano in mezzo al corridoio e lungo le scale; Sulac doveva stare
attento a dove metteva i piedi.
Quel
giorno, non era obbligatorio che si presentassero i politici, ma chi voleva,
avrebbe potuto assistere al suo discorso.
S’avviò
fino alla sua stanza e quando arrivò, aprì la porta e chiuse tutto il mondo
fuori. Si doveva concentrare per non sbagliare o farsi prendere dall’emozione.
C’era un trucco per rilassarsi, immaginare che tutti quanti si trovassero in
mutande. Prese il suo ipod, per ascoltare la sua musica preferita.
Il
tempo passava, scandito dal ticchettio dell’orologio a muro.
Qualcuno
bussò alla porta, ma Sulac non lo sentì. Allora, questo suo collaboratore
entrò.
«Ci
siamo, tra mezz’ora siamo in onda, ti devi preparare». Sulac si tolse le cuffie
dalle orecchie e mise il suo ipod in un cassetto che si chiudeva con una
chiave.
Prese
il portatile e alcuni fogli e insieme a un suo collaboratore, s’avviò fino alla
sala del parlamento.
Non
appena entrò dentro quella stanza, notò che c’erano alcuni politici seduti che
attendevano il suo discorso; c’è n’erano veramente tanti, più della metà dei
posti a sedere erano occupati.
Attaccò
il suo portatile al maxischermo che si trovava sopra di lui e dopo, accese il
computer. Accanto al computer aveva dei fogli, con il discorso che avrebbe
dovuto leggere. Lui non amava farsi
scrivere i discorsi dagli altri, perché le parole che pronunciava voleva che
fossero le sue.
Il
tempo stava passando troppo veloce.
«Tra
due minuti in onda». Disse un addetto della televisione.
Sulac
si era vestito veramente bene: indossava un vestito nero, con una camicia
bianca e una cravatta celeste che riprendeva il colore dei suoi occhi e dei
mocassini neri. Per l’occasione si era anche messo un po’ di trucco.
«Tre…
due… uno… in onda». Gridò un addetto della televisione.
«Buon
giorno, sono Sulac e sono a capo del governo mondiale.
Anche
a dicembre scorso ero a capo del governo, ma essendo stato eletto da poco non
ho potuto fare niente.
Ho
dovuto lottare con un nemico più grosso di me, c’ho dovuto proprio fare a
cazzotti, ma alla fine, in quest’anno sono riuscito un po’ ad annientarlo.
Molti
prima di me ci hanno provato, ma hanno fallito miseramente. Per essere riuscito
a sconfiggere la crisi, non mi sento un dio o un eroe, io sono come voi, una
persona del popolo, a cui è stato incaricato di intraprendere questa bella e
difficile missione.
Fare
il politico non è un lavoro, ma una missione e un atto di rispetto nei
confronti di tutte quelle persone che mi hanno votato.
Non
è stato facile, ma alla fine le mie idee si sono rivelate vincenti.
Se
sono riuscito a portare a termine queste mie idee, che hanno cambiato il mondo,
non è stato solo grazie alle mie idee, ma anche a Henry.
Quel
ragazzino è stato d’esempio per tutto il mondo, lui ha fatto capire a molte
persone, che si può fare qualcosa, per aiutare il prossimo, senza, però
ricevere niente in cambio.
Non
so a voi, ma a me a insegnato davvero tanto, a insegnato una cosa che non ho
mai trovato nei libri, quando studiavo per diventare un politico: mi ha
insegnato a essere umile».
Smise
di parlare, si fermò per qualche istante, mentre dai suoi occhi incominciarono
a scendere delle lacrime.
«Scusatemi!».
Esclamò e poi, con un fazzoletto s’asciugò le lacrime.
«Voglio
molto bene a Henry, quasi come se fosse mio nipote.
Mi
ha insegnato un sacco di cose, che io ho cercato di mettere in atto, per
migliorare la situazione economica del mondo.
Sono
riuscito ad abbassare le tasse del venticinque per cento. Questo è un grande
risultato, ma non basta, il mio obbiettivo, con il tempo, è quello di arrivare
al cinquanta per cento.
Abbassando
le tasse voi, avete comprato di più e noi le tasse, per offrirvi i servizi ci
sono arrivate comunque.
Vi
faccio un esempio.
Andate
al supermercato e comprate più cose e con il tempo, quel supermercato aumenterà
il numero dei dipendenti. Comprando un oggetto, date più lavoro a chi lo
produce e a chi crea le materie prime; è tutta una catena, che alla fine di
tutto, migliora tutta l’economia.
Sono
aumentati i posti di lavoro del venticinque per cento.
La
crisi c’è sempre e ci aliterà ancora sul collo, ma prima o poi, la sconfiggerò
del tutto.
Abbiamo
pensato molto ai giovani, investendo dei soldi nell’istruzione e per fare in
modo che ognuno di loro abbia la possibilità di sviluppare i loro sogni.
I
bambini e i ragazzi sono la generazione del futuro e non possiamo tagliarli le
ali, ma dobbiamo aiutarli a crescere.
Buone
vacanze». Disse Sulac.
Appena
finì di parlare, prese in mano i fogli del discorso e dopo, li gettò per aria,
lanciandoli sopra la testa. Quei fogli incominciarono a volare e dopo, caddero
a terra, sparpagliandosi su tutto il parlamento.
Mentre
li guardava volare, si mise a ridere e dopo, gridò e incominciò a saltellare
sul posto.
«Sì!».
Gridò Sulac.
«Ci
sono ancora le telecamere accese, ti stanno registrando». Gli disse un suo
collaboratore.
«Sono
felice che il discorso sia andato bene, ero teso e questo è il modo di
sfogarmi. E non vedo l’ora di staccare la spina, sono stanco». Gli disse Sulac,
per dargli una spiegazione.
«Divertiti
da Claus». Gli disse.
«Certo».
Prese
tutte le sue cose e dopo, lasciò il parlamento e tornò subito a casa per
preparare la valigia. Alle nove avrebbe preso l’aereo, che l’avrebbe portato
fino in Lapponia e tra qualche giorno avrebbe rivisto Henry e tutta la sua
famiglia.
Quando,
dopo molte ore raggiunse la Lapponia, prese l’autobus per poter raggiungere la
casa di Claus. Quando si trovò di fronte alla casa di Claus, citofonò.
«Chi
è?». Disse Claus.
«Tuo
fratello». Gli rispose.
Sulac
spinse il cancello, per entrare dentro la casa di suo fratello e dopo,
oltrepassò la porta.
I
due fratelli s’abbracciarono ancor prima d’iniziare a parlarsi. Quando si
sciolsero dall’abbraccio si guardarono negli occhi.
«Sono
venuto ad aiutarti e a rilassarmi dalla vita politica». Gli disse.
«Ti
stanca molto?». Gli chiese Claus.
«Un
po’, ma ne vale la pena». Gli rispose con un sorriso. Sotto gli occhi aveva
delle occhiaie da far paura.
Si
tolse la giacca, l’appese all’appendi abiti e posò a terra la valigia.
«Ciao
zio». Gli dissero in coro i suoi nipoti, mentre gli venivano incontro per
abbracciarlo.
«È
stato forte il tuo discorso, l’abbiamo visto tutti». Gli disse Clary.
«Soprattutto
la parte in cui parlavi di Henry». Disse dopo Claus.
Così,
dopo un buon pranzo, Sulac si mise subito all’opera per aiutare Claus.
Andò
su facebook e creò un post per tutti i suoi fans, chiedendogli come l’anno
scorso di inviargli gli oggetti che non usavano più. Dopo, condivise nuovamente
il video che aveva fatto l’anno scorso insieme ai ragazzi.
Dopo
una decina di minuti, cominciarono ad arrivare le prime risposte e addirittura,
lo mandarono in onda al telegiornale.
Dopo
quelle rivelazioni, William, Daniel, Henry e Neal, lasciarono la soffitta e s’incamminarono
in punta di piedi, fino alle loro camere.
Erano
davvero stanchi, la giornata era stata davvero pesante per le lunghe
passeggiate in montagna; ma sia William, Daniel e Neal non riuscirono a
chiudere occhio; ripensavano in continuazione a quello che gli aveva raccontato
Henry e al fatto che Claus potesse essere il loro nonno.
Henry
era stato l’unico che quella notte riuscì a dormire, perché si era messo
l’animo in pace e forse, in parte, era riuscito ad accettare quella verità che
all’inizio l’aveva sconvolto.
Non
ne aveva mai parlato a nessuno, ma da quando erano tornati dalla vacanza
estiva, aveva una sensazione strana su Claus e ogni volta che ci parlava
tramite il computer, s’intensificava sempre di più.
Non
sapeva il motivo o se era una sensazione positiva o negativa, ma che quando
l’avvertiva, sentiva dei brividi che gli percorrevano in tutte le ossa. Gli facevano
sentire tanto freddo, fin dentro le ossa.
Voleva
capire e per questo, durante la notte passava delle ore sveglio, stando supino,
con le braccia incrociate e le mani sotto la testa e con gli occhi aperti
guardava il buio intenso della notte, disturbato dai led degli apparecchi elettronici.
Se
avesse saputo il motivo di questa sua strana sensazione, l’avrebbe potuto
aiutare, ma in questo modo, era tutto inutile.
S’arrabbiava
con se stesso, la sua sensazione era inutile, come una bomba che non sai quando
esplode.
Per
lo meno, l’ultima volta aveva che sognato Claus c’era un motivo: non riusciva a
comprare tutti i regali a causa della crisi; ma questa volta, non lo sognò
nemmeno una volta.
Passavano
i giorni e dentro di se, quasi come per magia, sperava di trovare una soluzione
a questo suo dilemma; ma non riuscì a venirne a capo.
Il
mattino seguente, Henry aveva fatto un bel sogno, in cui s’incontrava con Claus
e s’abbracciavano stretti in un abbraccio pieno d’amore. Era un bel sogno e non
vedeva l’ora che diventasse realtà; questo sogno, non gli aveva fornito una risposta
alla sua strana sensazione.
In
questo momento, era davvero arrabbiato con se stesso.
Si
svegliò al suono insistente della sveglia, facendo così terminare, in modo
veramente brusco il suo sogno su Claus. S’arrabbiò ancora di più con se stesso;
oltre ad aver interrotto bruscamente il sogno non si ricordava nemmeno che cosa
aveva sognato
Si
mise a sedere sul letto, si tolse il pigiama e si vestì per scendere in cucina.
Scese
fino in cucina e trovò tutti quanti a tavola, erano le sette in punto. Henry,
prese il latte dl frigo, lo versò in un tazza e aggiunse una manciata di
cereali.
Incominciò
così a mangiare.
«Ho
delle strane sensazioni su Claus». Disse Henry, all’improvviso, lasciando tutti
di stucco. Lo guardarono tutti quanti in un modo stralunato e chi si stava
portando il cucchiaio alla bocca, lo lasciò a metà.
Henry,
in quell’ istante si sentiva osservato e guardò tutti i suoi familiari, uno per
uno.
«In
che senso?». Gli chiese William.
«Come
l’ultima volta?». Gli chiese Daniel.
Henry
fece di no con la testa.
«No,
l’ho sognato, ma ho lasciato a metà il sogno e non melo ricordo nemmeno. Non so
se sia una sensazione positiva o negativa. Questa cosa mi dispiace molto,
perché gli voglio molto bene, lo voglio aiutare». Disse Henry, amareggiato di
se stesso.
Dopo,
guardò suo padre, avrebbe voluto dirgli tutto quello che aveva scoperto.
“Papà, Claus è tuo padre, cioè mio
nonno”. Come faceva a dirgli una cosa del genere, non aveva
il coraggio. A volt, bisogna trovare il momento giusto, per dire delle notizie
che potrebbero stravolgere le vite delle persone.
Suo
padre si sentiva osservato intensamente da Henry.
«Che
c’è?». Gli chiese suo padre.
«Niente».
Gli mentì Henry e dopo, gli sorrise.
«Ti
crediamo». Gli dissero insieme i suoi genitori e dopo, per questa cosa, si
misero a sorridere.
«Ti
credo quando dici che hai delle strane sensazioni su Claus». Gli disse sua
madre.
«E
scusami se l’hanno scorso non ti abbiamo creduto». Disse suo padre.
Henry
li guardò e rimase in silenzio per un attimo.
«Davvero
mi credete?». Henry gli chiese sbalordito.
«Certo
e credo che William debba prenotare i primi biglietti disponibili e voi sei dovete
partire per la Lapponia». Gli disse suo padre.
Henry
lo guardò, era felice dell’idea di partire. C’era qualcosa che non gli tornava,
perché aveva detto “voi sei”.
«Perché
voi sei?, voi non venite in Lapponia?». Chiese William a suo padre.
«Portate
con voi anche le vostre amiche, June e Rachel.
Noi partiremo qualche giorno dopo di voi, per via del lavoro». Gli spiegò suo padre e dopo, fece
l’occhiolino a Daniel, William e Henry.
William
non se lo fece ripetere due volte, prese la carta di credito di suo padre, andò
subito in camera sua, accese il computer e con un sorriso sulle labbra, andò
sul sito per prenotare i biglietti aerei.
Henry
e Daniel, dopo aver saputo la data di partenza chiamarono subito le loro amiche
per invitarle a passare tutte le feste in Lapponia.
«Ciao,
June sono Henry, ti va di venire in Lapponia con me a conoscere Claus, Sulac e
la Befana?». Le chiese.
«Dimmi
che non è uno scherzo, che bello, certo che vengo». Le disse e dopo, incominciò
a strillare dalla felicità.
Dopo,
Henry lasciò il telefono a Daniel, che era molto più timido con le ragazze.
Daniel era più grande di Henry e il loro modo di vedere l’amore e le ragazze,
era completamente diverso.
«Ciao,
sono Daniel, ti va di venire con me in Lapponia». Le chiese, mentre le sue
guancie si tingevano di rosso e s’attorcigliava in modo nervoso il filo del
telefono sul dito.
«Certo,
dimmi quando». Gli rispose.
Tra
due giorni sarebbero partiti, così iniziarono fin da subito a prepararsi le
valigie. Ormai tutti quanti sapevano farsi le valigie, anche il piccolino di
casa, Neal, aveva imparato a farsele da solo.
Portarono
due valigie: in una ci avevavo messo i vestiti, tutte le altre cose non fragili
e di poco valore e nell’altra, nel bagaglio a mano ci stavano tutte le cose
fragili.
Così,
due giorni dopo, suo padre li accompagnò di notte all’aeroporto, dove, li
attendevano già da qualche minuto, June e Rachel.
Abbracciarono,
salutarono il loro padre e dopo, entrarono nell’aeroporto, per fare il check-in
e partire così verso la Lapponia.
Salirono
in aero, si misero a sedere nei posti che gli avevano assegnato e attesero che
partisse in silenzio.
La
partenza faceva sempre paura a Henry, infatti prendeva la mano del fratello che
gli stava accanto.
Il
panorama visto dall’alto era sempre emozionante e così bello da mozzarti il
fiato; lentamente, passarono da una terra colorata di verde e marrone, a un’altra,
la Lapponia in cui tutto quanto era colorato di bianco, come se qualcuno c’avesse
buttato un sacco di panna e zucchero a velo.
Henry
s’addormentò durante il volo, ma non sognò niente; ma più s’avvicinava alla
Lapponia e più la sua strana sensazione diventava sempre più intensa.
Ancora
non sapeva se era una sensazione positiva o negativa; di una cosa era sicuro,
avrebbe tenuto d’occhio Claus, non avrebbe mai voluto che gli capitasse
qualcosa di veramente brutto. Si dimenticava il fatto che da ora in poi, l’avrebbe
dovuto chiamare “nonno Claus”.
«Hai sognato qualcosa?». Gli chiese William
riferendosi alle sue strane sensazioni.
«No».
Rispose Henry amareggiato.
Così,
finalmente l’aereo atterrò dopo molte ore di viaggio. Presero il loro bagaglio
a mano, scesero dall’aereo, andarono a recuperare le loro valigie e poi,
uscirono dall’aeroporto.
Non
era la prima volta che Henry vedeva la Lapponia, ma ogni volta provava dentro
di se un emozione pazzesca, come se la vedesse per la prima volta.
Sentire,
l’odore delle neve mescolato a quello
della natura, era qualcosa di pazzesco.
A
piedi, s’avviarono fino alla stazione degli autobus; il clima era davvero
pungente. Dal loro bagaglio a mano, presero i guanti, la sciarpa e il cappello
e li indossarono per stare più al caldo.
Se
ne stavano in fila indiana, perché quella strada era trafficata. C’era chi come
Henry ascoltava la musica per rilassarsi.
«Clary
è già arrivata». Disse William sorridente.
«Bene,
allora vuol dire che c’è anche Gabriel». Disse Daniel.
«Chi
è Gabriel?». Chiese Rachel.
«Il
fratello della mia ragazza Clary, amico di Daniel, perché tutti e due sono
davvero in sintonia sui loro interessi». Le rispose William.
«Puoi
dirlo forte». Disse Daniel sorridendo.
Quando
arrivarono alla stazione degli autobus, William fece i biglietti per tutti e
nel frattempo, ne approfittarono per fare uno spuntino.
Quando
finirono di mangiare, si misero a sedere sulle panchine che si trovavano fuori.
Dopo
una decina di minuti, arrivò l’autobus che li avrebbe portati fino alla casa di
Claus.
Salirono
a bordo e dopo, si misero a sedere. Henry era pensieroso e se ne stava in
silenzio; tutti gli altri parlavano e scherzavano e lui se ne stava lì a
guardare il paesaggio, che lentamente scorreva dal finestrino.
«Che
c’è?». Gli chiese Daniel.
Henry
alzò la testa, fino a guardare il fratello in faccia e rimase in silenzio per
qualche secondo.
«Come
faccio a chiedergli se è mio nonno?, non gli posso mica dire “scusa, ma sei mio nonno?,mica hai avuto un
figlio quando avevi meno di vent’anni?”. Devo trovare il modo giusto ed
educato per chiederglielo, però, in ogni modo glielo chiederò, sconvolgerò la
sua vita, quella di Clary e Gabriel, di Sulac e tutta la nostra famiglia».
Disse Henry.
«Fasciati
meno la testa. Devono sapere la verità, anzi tutti quelli che hai citato devono
e hanno il diritto di sapere la verità». Disse Daniel.
Quando
arrivarono vicino alla casa di Claus, scesero dall’autobus e in fila indiana,
s’incamminarono fino a raggiungere la meta.
Henry
si ricordava ancora come l’anno scorso, era stato divertente trovare la strada
per arrivare alla casa di Claus, con la citazione “Seconda stella a destra e dritta fino al mattino”.
Finalmente
arrivarono a casa di Claus, quando era qui, aveva sempre avuto la sensazione di
trovarsi a casa e ora sapeva il motivo; Claus era suo nonno.
Henry
suonò al citofono di Claus e dopo qualche secondo, gli rispose lui.
«Sono
Henry». Gli disse.
Il
Cancello s’aprì e tutti quanti entrarono dentro. Claus, Sulac, Gabriel e Clary
s’affacciarono alla porta.
Non
appena Clary vide William, gli corse in contro e gli saltò in collo, mettendogli
le mani intorno al collo e anche lui la strinse a se, mettendole le braccia
intorno alla sua vita.
«Mi
sei mancato da morire». Gli disse e dopo, lo baciò con trasporto.
«Anche
a me». Le rispose.
Tutti
quanti entrarono dentro casa, posarono le valigie e si tolsero le giacche.
Tutti quanti s’abbracciarono e si baciarono per salutarsi, ma quando lo fecero
Henry e Claus, fu qualcosa di molto intenso.
«Loro
chi sono?». Chiese Claus quando vide le due ragazze.
«Lei
è June l’amica di Henry e lei è Rachel l’amica di Daniel. Sono amiche molto,
molto speciali». Disse William e dopo, gli strizzò gli occhi.
«Non
ti dispiace se l’abbiamo portate con noi?». Gli chiese Henry.
«No,
tanto ho molte camere, lo spazio non ci manca». Gli rispose e dopo, gli
sorrise.
«Come
va il processo?». Gli chiese Sulac.
«Siamo
sempre allo stesso punto, non sappiamo se quelli che stiamo accusando sono i
veri rapitori o se sono solo dei mandanti». Disse William.
Dopo
Claus guardò Henry e gli venne in mente che lui gli voleva fare una domanda.
«Cosa
mi volevi chiedere?». Gli chiese Claus.
«Sei…,
sei…». Provò a dirglielo, ma non riuscì a continuare.
«Sono
cosa?». Gli chiese incuriosito.
William
si fece avanti e stava per fargli quella domanda.
«No,
William, devo essere io a fargli quella domanda». Gli disse Henry, allora lui
si fece da parte.
Henry
chiuse gli occhi per calmarsi e trovare la forza dentro di se per trovare
quelle parole.
«Sei
mio nonno?, sei il padre di mio padre?». Gli chiese così velocemente che si
mangiò qualche parola.
«Credo
di sì, l’ho sempre sospettato, prima quando ho incontrato te e poi, quando ho
incontrato tuo padre. Per esserne certi dovremmo fare un test del DNA». Gli
disse Claus, che anche se sospettava che il padre di Henry fosse suo figlio
aveva paura e allo stesso tempo non vedeva l’ora di sapere la verità
«La
sapevo questa cosa, per questo ho preso un capello dalla spazzola che usa mio
padre». Prese il suo zaino, lo aprì e tirò fuori una bustina trasparente con
dentro qualche capello.
Sulac
prese una bustina trasparente, s’avvicinò a Claus per strapparli un capello.
«Ahi!».
Gridò Claus.
«Scusa
fratello, ma dobbiamo scoprire la verità».
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