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giovedì 18 dicembre 2014

IT'S CHRISTMAS TIME PARTE 2: CLAUS, DOVE SEI? #6

DISCLAIMER:
È assolutamente vietato copiare il contenuto dei post incentrati sulle mie storie. Tuttavia potete copiare la sinossi e condividere sui vostri blog la data d'uscita dei capitoli successivi.

Per leggere i capitoli della prima parte, clicca qui.

Per leggere il quinto capitolo di It's christmas time parte 2, clicca qui.

"Ecco il sesto capitolo, in questo capitolo scoprirete dov'è andato Claus, buona lettura.
SE TI E' PIACIUTA QUESTA STORIA, CONDIVIDILA, PER FARLA CONOSCERE ANCHE AI TUOI AMICI.
Fatemi sapere se vi piace questa storia, se avete da criticare, fatelo pure, perché le critiche sono costruttive. Mi piacerebbe ricevere un vostro giudizio. Grazie per aver letto questa storia. Non perdete il SETTIMO CAPITOLO, IL 20 DICEMBRE ORE 21:00"

CAPITOLO 6: CLAUS, DOVE SEI?

Dopo aver accompagnato i suoi figli all’aeroporto, il loro padre ritornò a casa, nel buio intenso della notte e la strada, era illuminata soltanto dai lampioni che la costeggiavano da entrambi i lati.
Odiava quando le altre macchine che gli venivano in contro,  l’accecavano con i fari alti.
Così, dopo una decina di minuti ritornò a casa. Parcheggiò, scese dalla macchina e s’avviò verso il portone d’entrata. In alto, nel cielo c’era la luna piena, bella tonda e che riusciva a rendere l’atmosfera della notte ancora più magica.
Entrò in casa, mise il giacchetto all’attaccapanni e in silenzio, montò le scale per andare a dormire nella sua camera.
S’affacciò alle camere dei ragazzi, accese la luce e la prima cosa che vide furono quei letti che non erano disfatti. C’era troppo silenzio; non sentiva il respiro dei suoi figli. Solo in quell’istante, capì quanto era migliorata la loro vita, rispetto all’anno passato; non capisci il valore delle cose, finché non le perdi. Quei ragazzi portavano l’allegria in quella casa.
In quel preciso instante, sentì un senso di malinconia e di tristezza dentro al suo cuore. Così, per questo, decise di andare a dormire, per non pensare ai suoi figli.
Quando entrò nella sua camera, era al buio, ma lui sapeva riconoscere ogni parte. Si spogliò, fino a rimanere in mutande e poi, entrò dentro al letto. Senza svegliare sua moglie, le andò avvicinò e la strinse forte a se; aveva bisogno di sentirsela vicina, per sentirsi meno solo.
Così, dormirono serenamente, per le ore che li separavano dal mattino. Nel cielo, la luna aveva fatto lentamente posto al sole, che faceva capolino all’orizzonte. I raggi del sole avevano incominciato a invadere la loro stanza, attraverso le stecche dell’avvolgibile.

Si svegliarono al suono della sveglia, erano appena le sette. Il loro padre si stiracchiò per spengere l’allarme della sveglia e poi, si girò per guardare sua moglie e darle un bacio.
Non appena la guardò negli occhi, s’accorse che aveva un’aria strana; era molto pallida e stanca, infatti, sotto gli occhi aveva delle occhiaie da far paura.
«Stai bene?». Le chiese preoccupato, mentre le accarezzava dolcemente la faccia, i suoi occhi erano puntati in quelli della moglie.
Lei chiuse gli occhi e si lasciò trasportare da quelle dolci carezze.
«Avrò preso un virus intestinale, visto che ho molta nausea». Gli disse.
S’alzarono dal letto, si spogliarono e si vestirono.
«Mi mancano». Gli disse.
«Anche a me». Le rispose.
I ragazzi, soprattutto i più piccoli, Neal e Henry, a volte andavano in camera dei loro genitori, spalancavano la porta e dopo, incominciavano a saltare sul letto come due pazzi.
Uscirono dalla loro camera e poi, prima di scendere le scale guardarono le camere dei ragazzi, erano vuote: come il loro cuore in quel preciso momento.
C’era troppo silenzio in quella casa, perché di solito, i loro figli parlavano e ridacchiavano già dalle prime ore del mattino.
Mentre guardavano le loro stanze, gli sembrava quasi d’immaginarseli, mentre si vestivano, preparavano lo zaino e scherzavano tirandosi i cuscini addosso. Gli mancavano gli schiamazzi, le grida e i loro sorrisi; senza tutte quelle cose, quella casa era vuota.
Non era più la stessa casa, i loro figli avevano portato via tutta l’allegria. In quell’istante, gli mancavano come l’aria che respiravano.
Gli bastava sbattere le ciglia, per accorgersi che quelle immagini erano soltanto nelle loro menti. I letti, non disfatti gli facevano uno strano effetto.
Scesero in cucina e si prepararono la colazione. Anche in quella stanza c’era troppo silenzio, la tavola era troppo in ordine, la televisione era spenta e nessuno litigava per il canale da vedere.
«Mi pento per come abbiamo trattato i nostri figli e nel periodo in cui avevano rapito Neal». Gli disse.
Lui si girò e per qualche istante, la guardò dritta negli occhi.
«Lo so come ti senti, perché provo anch’io la stessa cosa». Le disse con le lacrime agli occhi; ripensare a quel periodo lo faceva stare veramente male.
«Non possiamo cancellare il passato, ma possiamo migliorare il futuro». Gli disse, per fargli vedere questa cosa da un altro punto di vista. Lui si rilassò dopo le parole di sua moglie, la guardò e s’asciugò le lacrime.
«Ti ricordi lo scorso natale, quando Henry ci aveva raccontato che Claus non riusciva a fare i regali alle persone, per colpa della crisi e che lui lo doveva aiutare. Noi…, noi…, noi… non gli abbiamo creduto». Le disse amareggiato per il comportamento che aveva avuto l’anno scorso. Aveva avuto difficoltà a pronunciare l’ultima frase; è sempre difficile ammettere i propri errori, soprattutto ad alta voce.
«Ripensandoci adesso, mi vergogno per il modo in cui l’abbiamo trattato, facendogli credere che il suo era soltanto un capriccio e non assecondandolo nelle sue scelte.
In qualche modo, quest’anno abbiamo rimediato, gli abbiamo creduto e  l’abbiamo mandato da Claus; ma so che questa cosa non cancellerà mai quello che gli abbiamo fatto l’anno scorso». Continuò dopo qualche secondo.
Lei non gli rispose, perché scappò subito in bagno e lui quando si rese conto di quello che stava succedendo le corse dietro e le resse i capelli mentre, lei avvicinava la faccia a wc per vomitare.
Dopo, si sciacquò la bocca e guardò in faccia suo marito.
«Il vomito, la nausea, la stanchezza… non è che…». Lui non terminò la frase.
Lei lo guardò intensamente negli occhi, per riuscire a capire che cosa pensava.
«Non lo so, ma se fosse… saresti felice?». Gli chiese.
Lui la prese tra le braccia e la fece volteggiare e poi, la strinse forte a se.
«Sì, felicissimo». Le disse con le lacrime agli occhi e dopo, la baciò.

Dopo qualche giorno, incominciarono a fare le valigie, avevano finito prima il loro lavoro e per questo, avevano deciso di partire prima del previsto. Non vedevano l’ora di vedere i loro figli.
«Ti sei mai accorto che Henry era strano da quando siamo tornati dal mare?». Gli chiese.
«No». Le rispose.
«Con quello che ha passato a causa di Neal, non vorrei che patisse ancora per una cosa del genere. Sono sicura che c’era qualcosa che lo turbava e io non voglio che soffra, mai più». Gli disse ancora.
«Sono sicuro che sta bene, ma se ti fa piacere quando lo vediamo possiamo chiederglielo». Le disse.
Così, durante la notte, presero il primo volo che trovarono disponibile.

Sulac non perse tempo, mise il capello di Claus in una bustina di plastica trasparente e ci scrisse sopra “Claus” con il pennarello indelebile. Dopo, andò in camera sua per prendere il suo bagaglio a mano, lo vuotò e ci mise dentro il cellulare, il carica batteria e il portafoglio.
Scese in cucina, per farsi un panino con cotto e fontina e lo incartò. Dalla dispensa prese una bottiglia d’acqua e un succo di frutta alla pera.
Mise tutto queste cose dentro al suo zaino e alla fine, decise di prendere anche una banana e una mela.
In cucina c’era solo Claus, che teneva in mano un bicchiere con dentro un liquido marrone, probabilmente un liquore, tutti gli altri erano già al lavoro.
Sulac lo guardò in faccia per qualche secondo: sembrava sconvolto e leggermente ubriaco.
Claus, alzava il braccio per portarsi il bicchiere alla bocca e sorseggiava a piccoli sorsi la bevanda. Il liquido dentro il bicchiere aveva cominciato a ondeggiare intorno alle pareti.
Aveva gli occhi lucidi a causa dell’alcol, sorrideva in continuazione e barcollava leggermente
«Stai bene?». Gli chiese Sulac.
Claus gli sorrise e poi, barcollò e per non cadere, si resse al tavolo della cucina.
«Questa cosa ti ha sconvolto». Sulac arrivò a questa conclusione, poi gli andò vicino e gli appoggiò una mano sulla spalla.
Improvvisamente Claus lo guardò negli occhi, anche se era leggermente ubriaco, era in grado di parlare e di ragionare.
«Un po’ mi ha sconvolto e allo stesso tempo, sarei felice di essere il nonno di Henry. Io già nonno, mi fa strano pure a dirlo». Disse e dopo abbassò la testa.
«Non ci resta che scoprire la verità». Gli disse Sulac.
Si voltò e dette le spalle a suo fratello, s’incamminò verso la porta e prese le chiavi della macchina, che erano attaccate al portachiavi.
Prese il giacchetto, lo indossò e aprì la porta per andarsene.
Andò fino al garage per prendere la macchina e dopo, l’aprì, salì a bordo e partì verso l’ospedale della Lapponia.
Su di se sentiva una grande responsabilità; qualunque fosse stata la risposta dell’esame del DNA, le loro vite sarebbero cambiate per sempre.
Accese la radio su una stazione che trasmetteva musica di tutti generi: dalla commerciale a quella più rock. Doveva e voleva rilassarsi; anche lui aveva paura di quella risposta.
Mentre sfrecciava per la strada, non pensava a niente e stava attento soltanto alla guida. Aveva indossato gli occhiali da sole, perché i raggi del sole gli davano fastidio.
Dopo mezz’ora arrivò all’ospedale, parcheggiò e quando entrò dentro, s’avvicinò alla portineria.
«Dove devo andare per fare le analisi del DNA?». Chiese a una gentile signora che si trovava al di la del vetro.
«Ma lei è… ». Disse quasi incredula.
«Sì, sono io. Mi può dire dove devo andare?». Le chiese ancora.
«L’accompagno». Gli disse e prima gli prese le generalità.
Dopo,  uscì da quella stanza per avvicinarsi a Sulac. Lui s’incamminò dietro a quella persona che gli faceva strada. La sua testa era persa tra mille pensieri.
Gli sarebbe piaciuto molto che suo fratello fosse veramente il padre del padre di Henry. Se questa cosa fosse stata vera, lui sarebbe stato lo zio di secondo grado di Henry; sarebbe stato molto contento di fare da zio a un bambino così altruista e generoso.
In caso contrario, sarebbe rimasto deluso; alla fine, anche in questo caso, non sarebbe cambiato niente, ormai tra le loro famiglie si era creato un legame che andava oltre quello del sangue.
Continuarono a camminare, fecero le scale e poi, si ritrovarono di fronte a una porta.
La signora bussò e un medico con il camice bianco, aprì la porta. Solo qualche istante dopo, capì che quella non era una porta dove ci passavano i pazienti, ma veniva usata dal personale medico del laboratorio di analisi.
Aveva bypassato tutte le persone che erano in lista, per fare questo esame; nessuno gli aveva detto questa cosa, l’aveva capito da solo. Non gli piaceva questa cosa, perché nonostante il ruolo che ricopriva, era sempre un cittadino e per questo, doveva avere gli stessi diritti.
Questa era un’altra cosa da sistemare, anche se sapeva che questa era una delle cose più difficili da cambiare, perché era troppo radicata nella mente dei politici. Secondo il suo sistema di politico, i politici non dovevano avere privilegi; in quanto persone, si dovevano comportare in modo civile e avere tutti i diritti e doveri dei normali cittadini.
Avrebbe anche dovuto migliorare la sanità, ma sapeva benissimo che ci sarebbe voluto tanto tempo per sistemare tutti i problemi del mondo; ma che prima o poi, avrebbe creato un mondo migliore per tutti.
«Vorrei fare un esame del DNA, per sapere il rapporto di parentela di queste due persone». Gli disse Sulac.
«Lo so chi è lei, me l’hanno detto poco fa che sarebbe venuto, incominceremo subito, ma ci vorranno più di ventiquattro ore». Gli comunicò.
Sulac consegnò le bustine con i capelli al medico.
«Buona giornata». Gli disse il medico.
«Buona giornata anche a lei». Gli rispose Sulac
La porta del laboratorio si chiuse e poi, s’avviò verso la macchina. Non aveva intenzione di tornare a casa, non prima d’aver ottenuto quella risposta.
Così, in quel preciso istante, decise che durante la notte, avrebbe dormito in macchina. Uscì dall’ospedale e per far passare il tempo, si mise a fare una passeggiata, nei dintorni. Non aveva niente da fare e non voleva pensare al lavoro. Così, passò davanti a un’edicola per comprare il giornale.
All’ora di pranzo, mangiò il panino che si era portato da casa.
Il tempo sembrava non passare mai, come se i secondi si fossero trasformati in ore. Lentamente, il sole cominciava a sparire, per fare posto alla luna, la luce spariva e faceva posto al buio intenso della notte e la temperatura s’abbassava ora dopo ora.
Finalmente, venne la notte, la luna era bella e splendente nel cielo.
Dopo aver mangiato a una tavola calda, perché, a causa del freddo, aveva bisogno di un pasto caldo, andò a dormire nella sua macchina, reclinando al massimo il seggiolino da passeggero e coprendosi con una coperta che teneva nel bagagliaio. In quella notte, la radio gli teneva compagnia e lentamente, lo cullava fino al sonno.
Così, passò una notte tranquilla, in cui sognò che stava dicendo a Henry di essere suo zio. Quando si svegliò, erano già le otto; fece colazione in un bar e poi entrò nell’ospedale, per chiedere notizie del test.
«Scusi?, è pronto il test?». Chiese gentilmente a un infermiere.
L’infermiere controllò tra tutte le risposte che gli avevano portato, ma non c’era ancora niente.
Allora, prese il telefono e telefonò direttamente al laboratorio.
«È pronto il test del DNA di Sulac?». Gli chiese.
«Sì, ok». Gli rispose.
Dopo, mise giù il telefono per rispondere a Sulac.
«Non è ancora pronto. Mi hanno detto che sarà pronto tra stasera e stanotte. Stia tranquillo, appena è pronto la chiamiamo al numero che ci ha lasciato». Gli comunicò.
Così, Sulac se ne andò e passò un’altra giornata come la precedente; passeggiando, leggendo il giornale e mangiando.
Non aveva telefonato a nessuno e nessuno l’aveva cercato; non gli voleva parlare prima d’avere una risposta certa.
Così, intorno alle sette, lo chiamarono per dagli una risposta, prese la busta e poi, se ne andò.
Non seppe resistere e quando arrivò in macchina, la aprì e lesse quella risposta. Non perse tempo, si mise alla guida e mezz’ora dopo, si trovò già sotto casa di suo fratello. Rimase per un po’ di tempo in macchina e quando si senti pronto a comunicare a tutti quanti l’esito di quel test, entrò in casa.

Quando i genitori di Henry arrivarono in Lapponia, scesero dall’aereo e a piedi raggiunsero la stazione degli autobus e da lì, sarebbero arrivati fino a casa di Claus; non vedevano l’ora di riabbracciare i loro figli.
Sulac era arrivato già da una mezz’oretta e aveva fatto leggere la risposta del test del DNA, solo a Henry,.
Quando sentì suonare il citofono, Henry s’avvicinò alla porta, per chiedere chi era.
«Chi è?». Chiese Henry.
«Siamo noi». Gli risposero i suoi genitori.
Così, Henry aprì il cancello e poi, senza preoccuparsi di vestirsi, uscì fuori e gli corse in contro, per abbracciarli e dopo, saltò in collo a suo padre e lui lo strinse forte a se. Era un abbraccio pieno d’amore.
Henry, smise di abbracciare suo padre e dopo, saltò giù fino a toccare i piedi per terra, che affondarono nella neve. Lo prese per mano e lo spinse verso la porta. Suo padre si fermò, mentre Henry gli tirava il braccio.
«Henry…., figliolo…». Gli disse e Henry si fermò, smise di tirarlo e lo guardò negli occhi.
«Ultimamente eri strano, sempre pensieroso, ce ne siamo accorti; ma volevamo darti del tempo e speravamo che quando ti fossi sentito pronto ci avessi parlato apertamente. Ma, aimè!, così, non è stato. Sicché, cos’è successo?». Gli chiese suo padre, mentre lo guardava negli occhi con uno sguardo pieno d’amore.
Henry gli sorrise e lo portò vicino al portico, per essere al riparo dal freddo; non salirono le scale che li avrebbero condotti al portico, ma si fermarono poco prima e sotto ai loro piedi, avevano ancora un manto nevoso.
«Eravamo in vacanza e te hai parlato nel sonno, dicendo di essere stato adottato e ci sono rimasto male per il fatto che non me l’hai mai detto e mi sono sentito tradito da te.
Ci sono rimasto molto male, ma alla fine, dovevo sapere se era vero. Ho visto una foto con te è Claus e mi sono accorto che siete uguali come due gocce d’acqua». Gli disse, ma suo padre lo interruppe.
«Fermo, stai dicendo che mio padre è Claus, è impossibile». Gli disse.
«Perché non mi hai mai detto che sei stato adottato?». Gli chiese sua moglie.
Lui si voltò verso di lei e le mise una mano sulla guancia, per farle una carezza.
«Non avercela con me, per averti tenuto nascosto questo segreto. È una cosa di me, è una cosa di me che non ho mai sopportato, il non sapere da dove provengo. È una cosa che fa davvero male, è come se per tutta la mia vita, mi fosse mancata una parte molto importante.  È come se io fossi un puzzle e mi mancasse un pezzo per completarlo; solamente io, quel pezzo, non sono mai riuscito a trovarlo.
Con il passare degli anni, l’ho accettato, anche se è stata una cosa molto dura da buttare giù.
Amore, te sai chi sono i tuoi genitori, io non me li potevo nemmeno immaginare. L’unica cosa che sapevo e che mi avevano abbandonato e quando l’ho scoperto ero piccolissimo e sentirsi abbandonati da piccoli è una cosa tremenda. Mi chiedevo, perché mi avevano abbandonato?, che cosa avevo fatto di male per meritarmi tutto questo?». Disse alla moglie e per la prima volta, aprì il suo cuore, che finalmente, per una volta era libero di esprimere tutto quel dolore che teneva imprigionato.
Allora, Henry si ricordò di quel diario che aveva letto.
«Lo so quanto soffrivi, quando avevi la mia età: ti sentivi diverso e non capivi il motivo e so come ti sentivi quando l’hai scoperto. Hai scritto “la verità mi è venuta in contro come un treno in corsa, ma io non la volevo sapere”». Gli disse.
Dagli occhi di suo padre incominciarono a scendere delle lacrime, che gli incominciarono a rigare la faccia. Più passavano i secondi e più il suo pianto diventava più dirompente e strillante. Gridava nel cuore della notte, ai passanti e ai vicini poteva sembrare pazzo, ma lui aveva bisogno di svuotare il cuore di tutto quel dolore che aveva accumulato negli anni.
Si gettò per terra, in un modo brutale, rischiando per fino di farsi male se non fosse stato per la neve che impedì l’impatto doloroso.
Cominciò a stringere la neve con le mani, lasciando, così, per terra le impronte delle sue dita.
Dopo alzò la testa, fino a incontrare gli occhi di Henry.
«Hai letto il mio diario?». Gli chiese senza essere arrabbiato, anzi, tutt’altro, sembrava rasserenato da questa cosa.
«Sì e non per mancarti di rispetto o per invadere la tua privacy. Dovevo capire se era vero che eri stato adottato, poi quando ho trovato il diario ho voluto leggerlo, lo sai perché?». Gli chiese, non era una domanda vera, ma retorica.
«No?». Ammise.
«Ho capito come ti sentivi e ho capito anche che nonostante quello che hai passato, sei il miglior padre che si possa avere e desiderare.
Io più di chiunque altro, ho capito come ti sentivi, perché mi sentivo anch’io così, per il senso di colpa che avevo nei confronti di Neal». Gli spiegò.
Suo padre si sporse in avanti, lo strinse all’altezza della vita e lo portò fino a terra, davanti a se e poi, lo strinse ancora più forte e gli appoggiò la testa sulla sua di Henry. Anche Henry, che con le sue braccia a malapena riscriva ad abbracciare il torace di suo padre, le strinse forte a se e dopo, appoggiò la testa sulla spalla di suo padre.
«Grazie, figliolo. Grazie». Ammise tra le lacrime, piangendo per tutte quelle lacrime che si era tenuto dentro di se.
Henry si sciolse dall’abbraccio.
«Guarda». Gli disse e dalla tasca dei pantaloni tirò fuori il test del DNA. Aprì quel foglio per farglielo vedere e suo padre lo prese tra le mani.
«Ho preso dei tuoi capelli dalla tua spazzola e li abbiamo confrontati con quelli di Claus. Il DNA è identico». Gli disse.
Suo padre lesse la risposta, non ci poteva credere aveva trovato sua padre grazie a Henry.
Allora, per qualche secondo lo guardò intensamente negli occhi, con uno sguardo che esprimeva soltanto tutto l’amore che provava nei confronti del figlio.
«Grazie». Gli disse.
Claus aveva la finestra di camera aperta e aveva saputo tutta la verità; questa cosa lo sconvolse e allo stesso tempo, lo rese felice.

Dopo, visto che si era fatto tardi e che al mattino avrebbero dovuto lavorare per il natale, decisero di andare a dormire.
I ragazzi salirono le scale per raggiungere le loro camere. Si misero il pigiama, si andarono a lavare i denti e poi. si misero a letto.
«Allora, è nostro nonno?». Chiese William a Henry.
«Sì». Gli rispose.
«Oddio!, allora io e Clay siamo parenti, ma sai che ti dico, me ne frego». Gli disse William con un sorriso
«Bravo fratello. Siete contenti che Claus è nostro nonno?». Chiese a tutti quanti Henry.
«Sì». Gridarono in coro i suoi tre fratelli.

Così, passò la notte, una notte diversa dalle altre, nella quale tutti quanti sapevano la verità: Claus era il loro nonno e il padre di loro padre. Erano imparentati con la famiglia di Claus e questa cosa, li rendeva molto felici.
Henry si svegliò molto presto, alle prime luci della mattina, quando il sole della Lapponia aveva appena iniziato a invadere quella terra.
Aprì gli occhi, s’alzò restando ancora sotto le coperte e poi si stiracchiò.
Si vestì e poi, scese in cucina; era l’unico sveglio, non c’era nemmeno l’elfo cuoco.
Si scaldò una tazza di latte, ci mise il caffè, lo zucchero e poi, un po’ di cereali.
Quando finì di fare colazione,  tutti quanti stavano ancora dormendo. Si vestì, con la giacca, cappello, sciarpa e guanti e uscì di casa.
Fuori non faceva tanto freddo e non c’era nemmeno il vento, il cielo era limpido e senza minaccia di pioggia.
Così si mise di fronte alla casa e s’immaginò un possibile addobbo; dopo andò in garage per tirare fuori tutte quelle scatole che contenevano gli addobbi di natale. Erano davvero pesanti e per prendere le statole che stavano troppo in alto, gli toccò prendere la scala.
Dopo tornò in casa e vide che tutti quanti stavano facendo colazione; li guardò uno per uno, ma Claus non c’era.
«Claus?». Chiese Henry e tutti quanti si guardarono, chiedendosi dove fosse.
«Lo vado a svegliare». Disse Neal.
Così, Neal lasciò la cucina e salì le scale per raggiungere la stanza di Claus. Spalancò la porta, notò il letto disfatto, ma Claus non c’era.
La stanza era molto in disordine, ma lui non se ne accorse.
Scese le scale di corsa.
«Non c’è». Disse Neal gridando.
«Come non c’è! e dov’è?». Chiese Neal.
Tra tutta la confusione e il tavolo pieno di cose da mangiare, Henry notò un foglio piegato. Lo prese tra le mani e s’accorse che era la calligrafia di Claus.
«Ci ha lasciato un messaggio.
“Ritorno più tardi, perché devo riflettere per aver scoperto che i ragazzi sono i miei nipoti e che il loro padre è mio figlio”». Finì di leggere Henry.

Dopo, quando tutti quanti finirono di fare colazione, decisero di dividersi i compiti: la Befana insieme agli elfi, avrebbe accolto tutti i camion che avrebbero portato tutti gli oggetti che venivano donate dalle persone; Sulac e l’elfo contabile, sarebbero andati a comprare le materie prime e i ragazzi si sarebbero occupati degli addobbi.
Così non persero tempo, nemmeno un minuto; in questi casi, il tempo era veramente prezioso e correva così velocemente, che nemmeno s’accorgevano che passava.
I ragazzi si vestirono mettendosi la giacca e poi, uscirono fuori. Andarono nel garage, presero le scatole che Henry aveva sceso giù e le portarono fino al centro del piazzale.
Incominciarono a mettere le palline sugli abeti che erano intorno alla casa. Claus aveva davvero tante scatole con le palline e non correvano il rischio di finirle; erano tutte diverse per forma e dimensione ed erano davvero molto carine.
«Ma se Claus è vostro nonno. Oddio!, mi confondo sempre con i rapporti di parentela. Voi siete… Claus è padre di un altro figlio nato prima di noi, che voi per noi siete…». Gabriel si mise a pensare, facendo uno sguardo davvero pensieroso. Dopo si portò una mano sul mento, mentre stava pensando.
«Sono i nostri nipoti e noi siamo i loro zii». Gli disse Clary, con un tono di voce strana.
«Hey!». Le disse William e dopo, l’abbracciò da dietro, incrociando le mani all’altezza della sua pancia.
«Che c’è?». Le chiese dopo qualche secondo.
«Siamo parenti!». Ammise con un po’ di rammarico.
«Non possiamo più stare insieme, ma cavolo!, io ti amo!». Disse dopo qualche secondo. William avrebbe tanto voluto sciogliersi da quell’abbraccio per darle un bacio appassionato e per farle capire quanto l’amava.
«Lo vedi quel nanerottolo di mio fratello». Le disse e glielo indicò con un dito.
«Ho fatto la stessa domanda a Henry e lo sai che cosa mi ha risposto. Fregatene!. Io ti amo e questa cosa non ci dividerà, sono disposto anche a lottare con i parenti. Quando ti ho conosciuta non sapevo che fossi una mia parente, se l’avessi saputo, non mi sarei dichiarato. Non ti posso lasciare per questo, perché ti amo così tanto e non voglio soffrire». Continuò William e riuscì persino a convincerla.
Dopo, William si sciolse dall’abbraccio e le si mise davanti per baciarla.
Prima che le loro labbra s’incontrassero lei si spostò, lo prese un braccio e lo trascinò con se.
«Dove andiamo?». Le chiese; ma lei non gli rispose subito, ma continuò a tirarlo. Dopo, per un brevissimo istante, gli fece un sorriso.
«Addobbiamo la casa, facciamo un presepe con la neve». Gli fece sapere le sue intenzioni e dopo, con un dito gli indicò la neve che era per terra.
Lo portò di fronte alla porta d’ingresso, lì, prima del portico.
«Lo facciamo qui, così è un po’ riparato dalle intemperie». Gli disse ancora.
Lo lasciò lì e quando ritornò, aveva in mano degli strumenti per lavorare con la neve.
«Io non sono bravo con queste cose manuali». Le fece sapere.
«Ti aiuterò io». Gli disse.
Così incominciarono a fare tre cerchi di diversa misura e dopo, li misero l’uno sopra l’altro e cominciarono a scolpire la forma di ogni personaggio. Li curarono in ogni minimo dettaglio, a partire dalle curve del vestito che indossavano, alla postura del personaggio, all’espressione e alla forma del volto.
Fecero solo personaggi principali: Gesù, Giuseppe, Maria, il bue, l’asinello e un angelo.
«Cosa state facendo?». Gli chiese Henry, mentre stava cominciando a mettere le palline a un altro albero.
«Un presepe fatto con la neve». Gli rispose Clary.
Henry continuò a mettere le palline sull’albero e poi, si mise a osservare quello che dopo un po’ di tempo, sarebbe diventato un presepe. Era un po’ titubante, perché in quelle palle tonde messe l’una sopra l’altra, non riusciva a vederci un presepe.
«L’idea è davvero carina, se vi riesce!». Gli disse Henry, per prenderli un po’ in giro.
Dopo,  Henry continuò a mettere le palline sull’albero, aiutandosi con una scala, quando non arrivava al ramo.
Dopo un’oretta, finirono di mettere le palline, l’ambiente cambio del tutto e tutta la casa di Claus, cominciò ad assumere un’aria più natalizia.
Ma non bastava, mancava ancora qualcosa per rendere quegli alberi ancora più belli; così andarono a prendere le luci colorate e cominciarono a mettere.
Erano in due ad addobbare ogni albero, uno reggeva la matassa del filo e l’altro incastrava le luci tra i rami, in modo da far stare più ferme possibili le luci in caso di forte vento.
Avevano finito d’addobbare fuori, il presepe era quasi pronto; alla fine presero un vecchio telo blu e quattro bastoni di legno. Misero i quattro bastoni di legno, davanti e dietro al presepe, formando così, un quadrato; dopo, legarono il telo per far sembrare che fosse una grotta.
Portarono le scatole in casa e dopo, si tolsero i giacchetti e li appesero all’appendiabiti. La temperatura era cambiata in modo veramente rapida e ormai fuori era già buio.
Accesero le luci fuori e s’accorsero che quest’anno avevano fatto un lavoro migliore rispetto a quello scorso. Era sempre suggestivo, quando le luci colorate s’andavano a riflettere sul manto nevoso, riproducendo, così la loro ombra sulla neve.
Cominciarono ad appendere le calze sul camino e sopra, sulla mensola la riempirono con candele rosse e pigne dorate.
Montarono l’albero, unendo i vari pezzi e dopo, aprirono bene tutti i rami. Quando si resero conto che tutti i rami erano belli aperti, presero le luci colorate e cominciarono a metterle, girando intorno all’albero. Dopo, l’accesero per notare l’effetto che faceva  al buio e poi, accesero la luce per vedere se avevano lasciato qualche spazio vuoto. Era qualcosa di pazzesco, gli era venuto meglio dell’anno scorso; quelle luci riuscivano a illuminare tutta la stanza e lo scoppiettio del camino, rendeva l’ambiente ancora più unico, quando le fiamme si muovevano e facevano cambiare l’illuminazione della stanza.
S’avvicinarono alla scatola che conteneva le palline tutte colorate, di ogni forma e sia in vetro che in plastica.
Cominciarono a mettere le palline sparse per tutto l’albero. Avevano deciso di fare un albero tutto colorato, perché il colore mette molta allegria.
Henry prese la punta dorata e Gabriel lo prese in collo, per permettergli d’infilarla in cima all’albero.
Dopo addobbarono l’albero con dei fili d’angelo, che dalla cima, s’estendevano fino a terra.
Andarono a chiedere a un elfo, se aveva dei giornali vecchi da buttare.
Tornarono in salotto, con i giornali vecchi e altre carte che Claus avrebbe buttato via.
Si misero a sedere per terra e incominciarono ad accartocciare la carta. Si divertivano come matti e si sorridevano, tanto che a volte, per scherzare si tiravano le carte.
Misero la carta accartocciata vicino alla base dell’albero e dopo, presero i fogli di carta del presepe, quelli sarebbero andati a formare le montagne e la pianura del presepe e li accartocciarono per farli sembrare più veri.  Dopo, li stesero sopra la carta accartocciata e quando furono soddisfati della loro disposizione, li fermarono con un po’ di scotch trasparente.
Incominciarono a piazzare la capanna grande: quella in cui c’era Gesù, Giuseppe, Maria, il bue e l’asinello.
Dopo,misero anche le casine fatte di legno, gli alberi e altri piccoli oggetti che lo avrebbero reso ancora più bello.
Aggiunsero anche tutti quei pezzi del presepe che erano in movimento come: la fontana, il  forno, il mulino e alte piccole cose.
Misero anche tutti gli altri personaggi che avevano trovato in una scatola, in un ordine, per dare un senso logico a quel presepe.
Dopo, misero anche le luci, ben posizionate, in modo da risaltare al meglio ogni piccolo particolare.
Aggiunsero anche una striscia d’abete finto che correva lungo il corrimano delle scale, con delle palline e delle luci.

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